di TONINO PERNA Dal manifesto di giovedì 24 maggio 2012.
Ormai non è più un esercizio accademico, ma esiste una buona
probabilità che alla fine di questo stillicidio, che sta tenendo sulla
graticola il popolo greco, Atene esca dall’euro. Con quali conseguenze
per la Grecia e per l’Ue? Questa è una domanda ineludibile che merita
una risposta approfondita. Secondo alcuni analisti la Grecia potrebbe
tornare alla dracma con una svalutazione del 60%, per cui il cambio
dracma-euro passerebbe da 340,75 dracme per un euro (cambio ufficiale
prima dell’ingresso della Grecia nell’eurozona) a 500-600 dracme per un
euro.
Questa forte svalutazione comporterebbe una altrettanto forte
inflazione che potrebbe oscillare da un minimo del 30% annuo ad un
massimo che è difficile da prevedere, in quanto l’inflazione è una
brutta bestia che quando impazzisce è difficile da tenere a bada. Il
ritorno alla dracma comporterebbe altresì una massiccia fuga di capitali
in euro alla ricerca di paradisi fiscali o solo di depositi sicuri. Ne
vediamo già le prime avvisaglie: negli ultimi due giorni i cittadini
greci hanno ritirato dai loro depositi 1,2 miliardi di euro, qualcosa
come 400mila euro al minuto. Dal gennaio 2010 ad oggi i depositi bancari
dei cittadini greci si sono ridotti di circa un terzo, con una
fuoriuscita di 70 miliardi di euro.
Non è difficile immaginare cosa succederebbe se fosse solo
annunciata l’uscita dell’euro. Non solo i grandi detentori di capitali, i
ricchi greci che già detengono qualcosa come 280 miliardi di euro nelle
omertose stanze delle banche svizzere, ma anche il ceto medio e
chiunque abbia messo un euro da parte lo sottrarrebbe alla circolazione.
È la legge di Gresham che torna all’opera: la moneta cattiva scaccia
via quella buona. I turisti stranieri verrebbero presi d’assalto con
proposte di cambio in nero nettamente vantaggiose per loro in modo da
ottenere dollari, euro, o qualunque altra moneta forte. La corsa ad
accaparrarsi euro o dollari vale anche per il governo all’indomani
dall’uscita dall’euro. Infatti, non è certo con la dracma che i greci
potrebbero continuare ad importare il petrolio, i mezzi di trasporto o i
beni alimentari di cui sono fortemente deficitari.
Spesso, di fronte alla crisi greca ed a quella di altri paesi del
sud Europa si è ricorso al paragone con l’Argentina che, da quando si è
sganciata dal dollaro e rifiutato di pagare i debiti esterni ed
accettare i piani di austerity, ha fatto registrare tassi di crescita
del Pil tra il 6 e l’8%. Ma la carta vincente che ha permesso la
recovery argentina è stata la crescita spettacolare delle esportazioni
di mais e grano verso un nuovo partner divenuto col tempo vitale: la
Cina. Quattro miliardi di dollari l’anno in più che hanno permesso al
paese di acquistare in valuta pregiata beni essenziali dall’estero, nel
mentre ripartiva l’economia locale ed il mercato interno con
l’importante contributo della spesa pubblica in pesos, sganciatosi dal
dollaro. Il caso greco è molto diverso. Da quando è entrata nell’euro la
Grecia ha visto crescere progressivamente il proprio deficit
commerciale passando dai 9,8 miliardi del 2000 ai 17,8 miliardi del 2005
per arrivare alla cifra record di 52 miliardi nel 2008, pari a quasi il
20% del Pil. Le misure di austerity, facendo crollare la domanda hanno
ridotto l’import, ma il deficit commerciale restava ancora oltre i 30
miliardi al 2011. Fino al 2008 il deficit delle partite correnti era
compensato dai flussi di capitali provenienti dagli altri paesi
comunitari, a partire dalla Germania, sia sotto forma di acquisto dei
titoli di stato, sia come prestito alle banche greche. Poi, come
sappiamo, questo flusso si è interrotto e per finanziare il disavanzo il
governo greco è stato costretto a vendere titoli a tassi che sono
arrivati alla cifra usuraia di oltre il 30%. Anche ritornando alla
dracma e con una forte svalutazione la bilancia commerciale greca
resterebbe in rosso perché la struttura produttiva è stata smantellata
da tempo, nulla si è fatto per ridurre la dipendenza della Grecia
dall’import di petrolio e gas, mezzi di trasporto, beni strumentali e
persino prodotti base dell’agro-business. Ed è questa una questione
fondamentale che accomuna la Grecia agli altri paesi del sud Europa.
L’entrata nell’Eurozona ha significato per i paesi dell’Europa del
sud (compresa l’Italia) la possibilità di accedere al denaro della Bce a
tassi bassi e ad acquistare le materie prime dall’estero a prezzi
contenuti grazie alla forza dell’euro. Ma, sul piano dell’economia
reale, della struttura produttiva l’entrata nella moneta unica ha
significato perdita di competitività ed una progressiva riduzione della
propria base produttiva. Chi se ne è avvantaggiata è stata la Germania
che ha trovato nei paesi dell’eurozona lo sbocco per oltre il 40% del
suo export. Soprattutto, il suo avanzo commerciale è cresciuto passando
da 75 miliardi del 2003 ai 144 miliardi del 2008. Nello stesso anno, con
la caduta delle Borse e la crisi finanziaria in tutto l’occidente, la
Germania ha modificato la sua strategia puntando a sostituire Usa e
paesi dell’eurozona con i più prosperi mercati dei Brics. Nel solo
biennio 2010-2011 il saldo commerciale con i paesi extraeuropei ha visto
crescere il surplus da 2,5 a 12 miliardi di euro.
Detto in altri termini: l’integrazione economica europea ha
prodotto asimmetrie e squilibri crescenti. La Grecia ed i paesi
dell’eurozona (soprattutto i paesi del sud Europa) hanno perso pezzi
della loro struttura produttiva mentre i prodotti tedeschi (ma anche
cinesi, turchi, ecc.) invadevano i loro mercati, provocando una crescita
dei disavanzi commerciali divenuta insostenibile con la crisi dei
flussi finanziari. Ma la storia non riporta indietro l’orologio, come si
fa con l’ora legale, ritornando alle condizioni di partenza. Il ritorno
alle monete nazionali dracma, peso, lira, escudo avrebbe effetti
devastanti almeno nel breve-medio periodo: iperinflazione, fuga dei
capitali all’estero, impoverimento ulteriore dei ceti medi e della
classe operaia. Ed è proprio tenendo conto di tutte queste conseguenze
che un partito di sinistra radicale come Syriza non vuole uscire
dall’euro, ma rinegoziare le condizioni con cui rientrare dal debito.
Stesse posizioni sono presenti, sia pure minoritarie, anche in Italia,
Spagna e Portogallo. Tenere insieme, in un nuovo patto sociale, le
popolazioni europee è la via d’uscita da Sinistra alla crisi epocale del
vecchio continente.
Dall’altra parte, c’è la questione della grande Germania che vede
come “zavorra” per il suo sviluppo i paesi del sud Europa: rappresentano
una quota decrescente del mercato mondiale dei suoi prodotti, e costano
sempre di più! Ma deve stare attenta: se salta l’euro salta l’Unione
Europea. Cioè salta la libera circolazione delle merci e della forza
lavoro, con conseguenze pesantissime proprio sul territorio tedesco, che
dovrebbe reggere al contempo svalutazioni monetarie dei vecchi partner e
imponenti flussi migratori. Greci, spagnoli, portoghesi ed italiani
ritornerebbero ad emigrare in Germania come negli anni ’50 e ’60, ma in
condizioni diverse, trovandosi a competere con altri flussi migratori.
La Germania sarebbe costretta ad alzare barriere doganali e bloccare la
libera circolazione delle popolazioni europee. Sarebbe il disastro
totale con il ritorno alla grande sulla scena politica europea delle
forze della destra nazionalsocialista. Anche sul piano finanziario
l’effetto domino del default della Grecia coinvolgerebbe Spagna,
Portogallo ed Italia e si tradurrebbe in una perdita netta per la
Deutsche Bundesbank di qualcosa come 600 miliardi di euro di crediti,
verso le banche centrali dei paesi del sud Europa, che diverrebbero
inesigibili. La Germania non può liberarsi facilmente del vincolo creato
con i paesi del sud Europa, così come la Lega Nord non è riuscita a
fare la secessione e sganciare il nord ricco e produttivo dal sud
«parassita e sanguisuga».
Questo dovrebbero capire i governi del sud Europa. Al ricatto della
troika rispondere con uno schieramento compatto che metta al centro due
questioni fondamentali: la ristrutturazione del debito pubblico e un
riequilibrio territoriale (in termini di economia reale) tra nord e sud
Europa all’insegna della riconversione ecologica e della sovranità
monetaria,energetica ed alimentare. Altro che eurobond per finanziare
grandi opere, altro che inno alla “crescita” sostenuta dalla spesa
pubblica, un rigurgito postkeynesiano fuori luogo e tempo massimo. La
crisi europea ha carattere inedito e richiede un pensiero politico ed
economico innovativo ed adeguato alla complessità di questa crisi. Ma,
richiede innanzitutto un rinnovato spirito solidale tra le popolazioni
del sud Europa. A partire dai cugini greci, a cui dovremmo far sentire
tutta la nostra solidarietà ed il nostro sostegno concreto.
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