Le foreste occupano il 31% delle terre emerse del pianeta. Le attività economiche legate alle foreste influiscono sulle condizioni di vita di 1 miliardo e 600 milioni di persone in tutto il mondo; esse sono fonte di benefici a livello socio-culturale e costituiscono il fondamento del sapere delle popolazioni indigene e, come ecosistemi, giocano un ruolo fondamentale nel proteggere la biodiversità e nell’attenuare gli effetti del cambiamento climatico. Eppure ogni giorno 350 km2 di foresta sono distrutti in tutto il mondo, e nel decennio 2000-2010 si calcola che si sia persa una media di 5,2 milioni di ettari di aree forestali all’anno
. Le cause sono la conversione in terreni agricoli, il taglio del legname, l’urbanizzazione e la gestione errata della terra. I maggiori responsabili, neanche a dirlo, sono le multinazionali americane. Iniziò Henry Ford che ottenne una concessione dal governo brasiliano di 1 milione di ha per la produzione di caucciù, necessario alla produzione di pneumatici. La trasformazione artificiale e pianificata dell’ecosistema si tradusse in un insuccesso: un fungo attaccò le piantagioni in modo significativo, le rivolte dei lavoratori che appiccarono il fuoco agli impianti, indussero Ford nel 1945 ad abbandonare il progetto. La consapevolezza della conservazione del prezioso ecosistema, indusse nel 2006 nello Stato di Rio Grande do Sul, le donne di Via Campesina ad invadere e tagliare gli alberi di eucalipto ogm, dell’Aracruz Celulose sostituendoli con sementi locali. Azione dimostrativa per portare alla luce che grandi estensioni di foresta amazzonica sono in mano straniera, attirate dal clima favorevole che permette la rapida crescita degli alberi. In nome della lotta contro il riscaldamento globale e della riduzione della CO2 le più grandi organizzazioni mondiali hanno caldeggiato la disseminazione di alberi artificiali, responsabili in tanti paesi in via di sviluppo di disastri sociali e ambientali. Nello Stato di Espirito Santo, il movimento Nazionale dei diritti umani ha bollato come “razzismo ambientale” l’esproprio di terre e la violenza sulle popolazioni degli Indios e degli afrodiscendenti Quilombolas. Del resto, l’introduzione invasiva di specie alloctone per produrre cellulosa sbiancata, destinata per il 97% all’esportazione, risale all’epoca delle dittature militari, sia in Brasile che in Cile. Furbescamente le multinazionali insistono molto sul concetto positivo di riforestazioni e gli enormi latifondi recano cartelli che segnalano aree di preservazione ambientale. Questi “soldati piantati” come li chiamano i Mapuche del Cile, riferendosi alla loro aggressiva presenza, appaiono tutti identici, coi rami solo in cima per facilitare le operazioni di taglio, apportano un grave danno: un albero di eucalipto assorbe grandi quantità di acqua, 30 L\giorno ed il risultato è che il suolo diventa arido, i fiumi e le risorse idriche si prosciugano. E’ il cosiddetto deserto verde. Anche nella pampa più a sud , sempre nello stato di Rio Grande, lungo i fiumi, si ha la mata ciliare, la foresta vergine, anch’essa sotto attacco delle multinazionali. Una delle minacce più serie deriva dalla “foresta che non vive”, 400.000 ha in Brasile e un milione nel confinante Uruguay. Singolare, ma non troppo, è l’osservazione che dentro il monocoltivo le api muoiono, ma ancora peggio è stata la distruzione della piccola proprietà e della struttura sociale. I soliti decantati posti di lavoro non si sono visti: è stato calcolato che la cellulosa genera un impiego ogni 185 ettari, mentre l’agricoltura familiare ne crea 5 ogni 10 ha . Anche lì, ovviamente la resistenza.. continua!
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